L’Europa vuole migliorare l’acquacoltura

Un progetto per migliorare l’acquacoltura in Europa attraverso il coinvolgimento del mondo accademico e analizzando tutti i possibili fattori chiave, da quelli più strettamente tecnici a quelli legati al mercato e alla capacità delle aziende di garantire innovazione di prodotto e sostenibilità: con PrimeFish, iniziativa finanziata dall’Unione Europea, sono finiti sotto l’occhio di una ricerca capillare le aziende di 5 paesi europei, tra i quali l’Italia, e sono stati coinvolti 6mila consumatori con l’obiettivo di valutare e misurare comportamento di acquisto e atteggiamento generale nei confronti del consumo di pesce allevato.

L’Europa è una delle zone del pianeta con un consumo più elevato di prodotti ittici, circa 22 chilogrammi pro capite l’anno e alcune delle nazioni che compongono l’Unione sono tra quelle più altoconsumanti del mondo. Il mercato europeo degli ittici è stimato in 55 miliardi di euro l’anno in valore e oltre 12 milioni di tonnellate in volume, con una crescita costante anno su anno. Tuttavia, a un incremento delle vendite corrisponde un incremento delle importazioni, sempre più importanti nella bilancia commerciale continentale. Oggi il 25% dei consumi Ue vengono da aziende di pesca europee, il 10% da acquacolture europee e il 65% da importazioni da paesi extra Ue. Ovvio che uno degli obiettivi di questa ricerca condotta su base continentale sia di indagare le potenzialità di crescita del settore in Ue, riducendo la dipendenza da altri paesi/continenti ed elevando la qualità della proposta.

PrimeFish, inoltre, si è occupato di etichettatura, in particolare di quanto l’etichettatura può influenzare il processo di scelta/acquisto di uno o dell’altra specie, con particolare rilevanza della provenienza e dei metodi di acquacoltura, delle interazioni con l’ambiente e dello sviluppo di una sorta di Ecolabel valida per tutta l’unione che garantisca il rispetto di determinati standard ambientali e del benessere animale. Merluzzo, salmone, trota, aringa, pangasio e spigola le specie sulle quali si è accentrata l’attenzione dei ricercatori, tra i quali anche l’Università degli studi di Parma in rappresentanza degli atenei italiani.

Dai dati della ricerca è emerso i singoli claim volontari attribuiti in etichetta dalle aziende non riescono a garantire efficacemente il consumatore europeo di ittici da allevamento, ma una struttura standard su base Ue, potrebbe avere un impatto positivo sull’opinione pubblica e sul mercato, anche in presenza di un aggravio dei costi. PrimeFish, inoltre, ha cercato di indagare quanto il consumatore è disposto a pagare in più data la presenza di un’etichetta di garanzia di buone pratiche e di rispetto dell’ambiente e dell’ecosistema. I risultati, com’era prevedibile variano da nazione a nazione e da specie a specie, secondo un rapporto qualità prezzo che è il risultato di una complessa interazione di fattori differenti. Secondo i risultati, il consumatore europeo, naturalmente, apprezza più il pesce pescato rispetto a quello allevato, in particolare per il salmone in Francia e la spigola in Germania. In generale sono i consumatori spagnoli a mostrare il minore interesse per il pescato selvaggio.

Per quanto riguarda i concept di prodotto, la ricerca ha evidenziato come nel loro complesso i consumatori preferiscano un pesce ready to cook, ossia già pronto per la cottura direttamente dal packaging, invece dell’intero pesce da pulire e preparare, operazioni che, di certo, sono una barriera importante all’aumento della penetrazione dell’ittico presso le famiglie d’oggi. Tempi lunghi, operazioni che possono essere sgradevoli, odori, mal si conciliano con la richiesta di ridurre il tempo passato tra i fornelli della massaia/o contemporaneo.

Secondo i risultati di PrimeFish, su alcuni mercati e per alcune tipologie di pesce, il filetto fresco è preferito al ready to cook, evitando ogni operazione di pulitura ma lasciando la possibilità di realizzare in pochi minuti una pietanza ittica applicando le proprie ricette. Anche riguardo le etichette, i risultati variano molto per quanto riguarda il contenuto delle stesse, sia che i claim siano più nutrizionali, sia che riguardino la sostenibilità e la salvaguardia ambientale: la wtp (willing to pay; la volontà di pagare di più per un benefit, ndr) è più bassa in Francia, nazione nella quale tradizionalmente c’è una bassa fiducia nelle certificazioni e nei claim nutrizionali. Nel Nostro paese il 36% del campione si è dichiarato pronto a pagare di più in generale per ogni specie se il prodotto può vantare benefit sotto il profilo nutrizionale e della salvaguardia ambientale.

Considerando il metodo di produzione, il wtp maggiore è stato riscontrato nel caso del salmone selvatico, per cui gli italiani sono disposti pagare il 48% in più rispetto a quello di allevamento. Riguardo la sostenibilità il wtp maggiore è quello per il merluzzo (+ 27%), mentre se si considerano i valori nutrizionali e l’impatto sulla salute è vincente l’orata (+ 27%).

L’identikit del consumatore italiano di prodotti ittici attento ad ambiente e salute riguarda una donna, di mezza età, con un profilo socio-economico elevato e con una famiglia medio-grande. Naturalmente il nostro paese, insieme a Spagna e Francia è uno dei più altoconsumanti del Vecchio Continente, con un consumo medio di 3-4 volte la settimana: pangasio, trota e aringa sono generalmente le specie meno consumate in tutt’Europa, mentre salmone e merluzzo sono i più accettati dal consumatore europeo, con un particolare interesse per la spigola che si colloca nell’area mediterranea. Il 40% dei consumatori europei ha evidenziato un incremento nel consumo di pesce negli ultimi 3 anni, il 44% ha dichiarato una sostanziale stabilità e il 16% una decrescita.

Proprio i consumatori Italiani, insieme a quelli inglesi, sono quelli che hanno dichiarato un incremento più ampio, mentre francesi, tedeschi e spagnoli hanno dichiarato una riduzione negli acquisti. i nostri connazionali si dimostrano mediamente più competenti nella scelta del pesce, conoscono le caratteristiche delle singole tipologie e attribuiscono più importanza alla pesca che non all’acquacoltura e sono più sensibili ad aspetto e freschezza, declinata nel numero di giorni intercorrenti tra la cattura e l’esposizione a scaffale. Influenzato da questi fattori principali, il processo di acquisto non vede come prima istanza il prezzo. In altri paesi come Francia, Gran Bretagna e Germania, il contenuto di servizio aggiunto rappresenta un fattore molto importante che va a influenzare la scelta di un prodotto ittico rispetto a un altro.

Sul versante sostenibilità/impatto ambientale, i consumatori europei, in genere, sono allarmati dalle conseguenze negative dell’acquacoltura per l’ambiente marino, anche se gli italiani mostrano meno attenzione a questi aspetti rispetto ai “colleghi” di altre nazioni europee.

Sviluppare il comparto dell’acquacoltura biologica italiana per cogliere interessanti prospettive di mercato: con questa finalità Crea (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria) con il contributo del Mipaf ha dato vita al progetto BioBreed-H20. L’obiettivo è ridurre l’impatto di quest’attività sull’ambiente circostante e garantire il consumatore sulla salubrità di ciò che porta in tavola attraverso un sistema di controllo efficiente. Oggi l’acquacoltura biologica in Italia copre all’incirca il 3% del totale e questa percentuale è rappresentata in quasi totalità da mitili. Ragioni strutturali, la mancanza di un marchio bio unitario, le difficoltà nel comunicare il valore di una proposta bio, in particolar modo nei confronti dell’ambiente, naturalmente anche l’aumento dei costi di produzione, sono freni che finora hanno impedito uno sviluppo corretto del comparto. Che può beneficiare di un’accettazione in crescita per il biologico in generale e su una maggiore sensibilità recente nei confronti del destino dei mari e della loro fauna. L’acquacoltura biologica riduce al minimo l’impatto sull’ambiente acquatico, usa fonti di energia rinnovabili e privilegia l’impiego di materiali ecosostenibili, utilizza un’alimentazione selezionata e limita i farmaci antibiotici e antiparassitari. Gli allevamenti sono collocati in mare aperto, in strutture a bassa densità, dove il numero degli animali è tenuto basso per permettere uno sviluppo più simile a quello che avviene in Natura, tra natazione ed equilibri di gruppo, a tutto vantaggio della riduzione dello stress e della salute degli esemplari. Le aziende che ricorrono a questa metodologia di allevamento devono seguire rigidi disciplinari per ottenere la certificazione biologica e controlli sono posti in essere in ogni passaggio di filiera per garantire trasparenza e affidabilità dei prodotti.

L’indagine Crea evidenzia come tra i consumatori italiani il biologico sia ben accettato, visto che il 93,4% dei nostri connazionali ha indicato di acquistare prodotti organic, in particolare frutta, verdura e uova. Solo il 25,4% del campione intervistato, rappresentativo della nostra società, ha dichiarato di acquistare carne e pesce certificati bio, ma solo il 5,7% ha affermato di farlo spesso, mentre il 45,8% del campione non compra mai carne o pesce bio. Tra le possibili cause di questa mancata accettazione dei pesci da acquicoltura biologica, la carenza di informazione sulle caratteristiche di questo tipo di regime d’allevamento: un numero elevato di consumatori, infatti, non sa definire i confini dell’acquacoltura bio. Spicca un dato: la larga parte del campione della ricerca, ritiene che gli allevamenti di pesce utilizzino in maniera elevata, antibiotici e altri farmaci di sintesi per tenere sotto controllo l’insorgere di malattie e la mortalità tra gli esemplari, quindi coloro che si rivolgono all’acquacoltura biologica si aspettano un uso limitato o l’assenza di farmaci (58,2% del campione). Se poco meno della metà dei nostri connazionali non compra mai pesce biologico, questo avviene per disinformazione (il 37,7% non sa cosa significhi acquicoltura biologica) oppure perchè il prodotto è assente dai banchi frigo (25,1% sostiene di non trovare pesce bio presso i supermercati) mentre è più bassa la quota dei consumatori che si definiscono scettici rispetto al marchio bio applicato al comparto ittico (9,2%).

di Manuela Soressi